giovedì 9 febbraio 2012

ci sono e non ci sono...

ci sono e non ci sono...diciamo che più che altro non ci sono! Scusate tutti ma sono piena di esami e cose varie...nel frattempo vi lascio una riflessione che ho prodotto in questi giorni su una questione che è scoppiata tra gli studenti di medicina della nostra facoltà. E' prolissa e etica e pure un po' morale... ma sono fatta un po' così! Baci a tutti!


Cari colleghi, (perché questo siamo e saremo vero? Qualcuno ha dubbi da sollevare?) avevo sinceramente deciso di non commentare, perché diciamocelo, i social network si prestano a spiacevoli misunderstanding, ma come dice Laura qualche post sopra rabbrividisco a leggere alcuni commenti.

Ebbene sì direi che rabbrividire è il termine esatto, perché qui – e perdonatemi  se la butto un po’ sull’etica e sulla morale – stiamo parlando di un gruppo di studenti, è vero, ma a mio parere stiamo parlando soprattutto di futuri medici. E ora vi spiego perché faccio questa distinzione.

A mio parere si è perso di vista il punto focale: noi non siamo solo chiamati ad essere “studenti meritevoli”, ma al contrario di altre categorie siamo chiamati a “studiare per essere buoni medici”. Non penso di essere tra gli studenti meritevoli, ma penso sicuramente di essere tra quelli fortunati. Quelli che hanno avuto la fortuna di avere genitori in grado di pagare l’intero corso di studi senza essere costretti a lavorare, quelli che non si sono scontrati con forza con la vita e le sue sfighe, ma anche con la vita in generale.
Non mi sento assolutamente di giudicare come più meritevole nessuno di noi. Penso che chiunque si sia fatto il culo e abbia fatto le proprie scelte, in scienza e coscienza.

Trovo assurdo e preoccupante che si parli di studenti meritevoli e credibili, perdendo totalmente di vista quella che è la cosa più importante del nostro lavoro, e cioè che siamo “persone” che avranno a che fare con altre “persone”, sia che siano colleghi sia che siano malati.

Quello che sta sfuggendo a tutto questo discorso è un concetto di rispetto reciproco, tra pari (quali noi siamo) e tra categorie. Io so che a salvarmi il culo sarà l’infermiere di turno il mio primo anno di specializzazione, che probabilmente ha studiato meno della metà di tutta la teoria che ho incamerato in sei anni, ma che tratta con i pazienti da almeno venti. Lui sa che faccia ha uno con un infarto, mentre io sarò ancora tutta presa a cercare un sottoslivellamento st che magari neanche c’è. So anche che cercherò quanto più spesso l’opinione di altri, che magari hanno studiato con me, o che magari hanno più esperienza anche se si sono laureati dopo, ma che hanno più sangue freddo, più manualità, più faccia tosta, più esperienza tecnica, perché ci stanno insegnando a conoscere tutto, in modo che assomiglia spaventosamente ad una pretesa di onniscienza che sappiamo non essere reale.

So che per il vecchietto che mi sorride ogni giorno in reparto è più importante che io sia gentile e mi fermi a chiedergli dei suoi nipoti, che non quale sia il mio voto in clinica medica, mentre per il figlio, spaventato dalla mia giovane età e dalla mia faccia pulita, che sia veramente a conoscenza del mio lavoro e sia aggiornata il più possibile.

Tutta questa guerra tra poveri (cit.) mi spaventa.  Perché penso sia proprio accusandoci tra noi e non essendo uniti nel nostro piccolo che perdiamo di merito e credibilità. Anche come futuri professionisti. E perché voglio fidarmi di voi, miei futuri colleghi, se avessi bisogno di qualcosa, se le mie conoscenze non arrivassero dove devono, come probabilmente succederà. E non voglio che, come spesso succede ancora tra i nostri stessi professori che si odiano tutt’ora per cose successe ai tempi dell’università, per ripicca o per dispetto a soffrirne siano i miei, i vostri!, pazienti.

Abbiamo un rappresentante che ci supporta (e sopporta) e non si fa i cazzi suoi (perché diciamocelo, abbiamo avuto anche questi), ma invece di sfruttare la cosa ho sentito accuse pesanti e frasi poco adeguate sul suo conto, solo perché di fatto è intervenuta in una faccenda che molti di noi consideravano quantomeno spinosa (se non vergognosa).
Abbiamo la forza della collettività, ma la perdiamo facendo campanilismo sterile e perseguendo i nostri obiettivi fregandocene degli altri.
So che tutto questo puzza di retorica. Ma spero che in un qualche modo riesca ad illuminarvi sulle mie paure. La paura di creare una nuova classe medica esattamente identica a quella dei fantomatici baroni di ogni giorno, che non solo accettano ma anzi facilitano queste piccole guerre, creando tanti piccoli cloni dimentichi dell’umanità e dell’importanza del gioco di squadra nella nostra professione.

Sono romantica. E credo ancora che salveremo il mondo. Che uno di noi riceverà un Nobel per aver curato un qualche male incurabile e tutti assieme miglioreremo questo clima di merda che si sta instaurando nel nostro paese. Perdonatemi, ma credo che il crederci (assonanza poetica!) mi porti ad essere una persona migliore nel mio piccolo. Non migliore di qualcun altro, ma migliore di quanto non sarei se non ci credessi.

Dreaming yours,
SkyWalker